29 NOVEMBRE 2018
Nel corso dell’occupazione tedesca, col marito al fronte, la signora Luisa Baragiotti, di Boffalora sopra Ticino, a pochi chilometri da Milano, si trovò un giorno nella necessità di procurarsi la legna per casa, in vista dell’inverno. Ma per prendere la legna serviva un permesso speciale, visto che era necessario passare attraverso una zona off-limits, sorvegliata dalle truppe nemiche. Così prese la bambina, Alessia, di sette anni, per mano e si recò presso il presidio logistico, per ottenere l’autorizzazione al transito. C’era una lunga fila in attesa, per fortuna Alessia trovò qualche amichetta per giocare insieme, mentre la coda, lentamente, si sfoltiva sotto l’occhio vigile dei soldati armati. Quando arrivò il suo turno, Luisa fu condotta davanti a una porta chiusa. Un’intimazione in tedesco proveniente dall’interno fece tremare le pareti. Un soldato la spinse brutalmente in avanti e richiuse la porta. Luisa s’avvicinò, mezza tremante, all’ufficiale che la osservava da una scrivania, tenendo la bimba per mano.
Non era la prima volta che lo vedeva. Ogni tanto lo sentiva passare per strada, circondato da un gruppo di scagnozzi armati; urlava in un italiano imperfetto, ma comunque minaccioso, impartendo comandi, sibilando improperi: lo sbirciava scostando le tendine della cucina, mentre la piccola Alessia le si accovacciava accanto. Solo quando era ben certa che la truppa se ne fosse andata, lasciava l’angolino della cucina ed abbracciava la bimba, rincuorandola. Ora, trovandosi a un metro appena dall’ufficiale, era paralizzata dalla paura. Fu proprio Alessia a darle la carica, stringendo forte la mano con cui la mamma la teneva. Luisa si scosse e buttò fuori in un momento, come una lezione imparata a memoria, la sua richiesta, senza smettere di guardarlo. Aggiunse anche, dopo una breve pausa che il marito era partito da mesi e non aveva più notizie di lui, e doveva badare sola a quella figlia, non poteva permettere che morisse di freddo, come se questo potesse indurre l’ufficiale a una miglior predisposizione nei suoi confronti. L’ufficiale la guardò attentamente in viso, poi girò gli occhi sulla figlia, che lo osservava apparentemente senza paura, forse incuriosita dalla situazione in cui si trovava. Ma ora che si trovava a pochi centimetri da quell’omaccione cattivo, dal quale la mamma la nascondeva sempre quando marciava per strada, non mostrava segni di terrore. E lui dovette accorgersene, visto che mantenne piuttosto a lungo lo sguardo sulla piccola. Luisa era paralizzata, pregava che quel momento passasse in fretta. Nel suo cuore non sperava più che gli venisse rilasciato il permesso, anzi, nemmeno più ci pensava, né alla legna né all’anelato foglio di carta. Voleva solo andarsene, al più presto, soprattutto la struggeva il pensiero di Alessia, che subiva quell’insopportabile tortura psicologica.
Ma l’ufficiale non pareva aver fretta. Nel silenzio plumbeo del locale, aggravato dalle espressioni glaciali delle due gigantesche sentinelle ai lati dello stesso, continuava a tacere in modo inquietante, privo d’espressione. Finalmente si mosse, in maniera impercettibile, sempre guardando Alessia. Luisa ebbe un fremito. L’ufficiale arretrò leggermente con la sedia e fece la mossa d’aprire un cassetto della propria scrivania. E la povera signora fu pervasa da un brivido.
Il tedesco recuperò in effetti qualcosa, dal cassetto, e lo mise sulla scrivania. Ma non era una rivoltella, bensì un piccolo scrigno in argento. Lo aprì con una chiavetta, e vi estrasse alcune fotografie. Luisa credeva di vivere in un sogno e ora anche Alessia appariva disorientata. L’ufficiale scelse una sola tra le foto e la mise sul tavolo, a favore di mamma e figlia. Ed entrambe non seppero trattenere un moto di meraviglia, nell’accorgersi che l’immagine raffigurava una giovane donna e una bimba, presumibilmente la figlia, abbracciate all’uomo. Il quale confermò l’impressione. “Mia moglie e la mia bambina”, sussurrò a Luisa e Alessia. “Non le vedo da sei mesi, voi me le avete ricordate.” Con circospezione, le due allungarono il collo ad osservare. Ma staccarono presto gli occhi dalle foto per rivolgerle, timorose, verso l’ufficiale. Il quale però, senza aggiungere altro, stava iniziando a firmare i documenti relativi al permesso richiesto, mentre la signora Baragiotti tratteneva il respiro. Ad Alessia parve di vedere una lacrima, in quel preciso istante, sul volto dell’uomo. Il tedesco firmò con cura, una bella scrittura chiara e tonda, poi allungò le carte a Luisa. La povera donna, ancora spaventata, teneva le carte in mano senza decidersi a compiere alcun gesto, finchè un soldato le fece segno d’uscire, intimazione che Luisa non si fece ripetere due volte.
Col prezioso documento nella borsetta e la bimba stretta forte per mano, Luisa uscì e s’avviò verso la zona off-limits, per prendere la legna. L’ufficiale la guardò andare via, mentre sentiva salire un groppo in gola. Ma fu un attimo. Il suo volto riprese l’usuale espressione granitica ed intimò urlando al piantone di far entrare il prossimo in coda. Il soldato s’affrettò ad eseguire l’ordine. Nessuno dei militari presenti nella sala aveva notato, nei brevi minuti di presenza di Luisa e Alessia, nulla di strano.
23 NOVEMBRE 2018
Il vassoio era stato appoggiato di fretta ma con cura sopra il tavolino, e lì era rimasto, ormai già da una decina di minuti. Dall’altra parte della stanza, la signora smise di parlare con il marito e distolse il gomito dal suo gambone ingessato, frutto di un’avventurosa discesa fuori pista. Si alzò. La porta della camera era aperta. Avrebbe voluto chiuderla, ma non sapeva se poteva farlo. Uscì in corsia. Fu investita dal formicolio d’attività in corso: telefoni che squillano, richiami, carrellini di medicinali trasportati avanti e indietro. Malati che passeggiano, o tentano di farlo, su carrozzine o appoggiati a stampelle. Familiari più o meno agitati, bisognosi di informazioni. Personale affannato, che entra ed esce dalle camere, così come aveva fatto anche nella loro, per portare ad esempio i vassoi della colazione. Traumatologia, venerdì mattina, ora 9.00 passate da poco. Aveva chiesto alle infermiere come avrebbe mai potuto mangiare quell’uomo anziano, immobilizzato al letto, completamente fasciato, e loro, trafelate, rispondevano che l’avrebbero imboccato, appena possibile. Capirai. In tre per trentasei malati, che in molti casi dovevano essere puliti e lavati. Poi controllare temperature e pressione, distribuire pillole, valori da verificare, tabelle da riempire. Poverette, pensava. Si sentiva quasi in colpa, a stare lì senza poter far nulla. Prese così una strana decisione. Ignorò la richiesta del marito che preoccupato le chiese cosa avesse in mente. Si diresse verso il secondo ospite della camerata. Il vassoio conteneva una tazza riempita a metà di caffellatte, all’interno della quale era stato sbriciolato un paio di fette biscottate, in modo da creare un pastone. L’uomo disteso nel letto teneva gli occhi semiaperti con espressione impassibile. La donna rifletté ancora per qualche istante, ferma davanti alla figura del malato che pareva non accorgersi di lei né del vassoio. Ma nel frattempo, senza il minimo rumore, un’infermiera s’era infilata nella stanza, diretta proprio verso quel degente. Gli infilò un tubetto nell’orecchio, collegato ad un apparecchio che teneva in mano; era per la pressione, intuì la signora. Borbottò qualcosa all’indirizzo del vecchietto mentre segnava il valore raccolto su di una tabella, dopo di che girò i tacchi e se ne uscì più velocemente di com’era entrata. La donna aveva appena fatto in tempo a scostarsi. Il marito, dal basso del proprio giaciglio, smise di rimirare il gambone. Ripartì all’attacco con la moglie, stavolta più decisamente: “Perché te ne stai lì davanti a questo vecchio, a vegliarlo come fosse un parente? Lo conosci per caso? Non è bello continuare ad osservare la gente ammalata manco fosse un fenomeno da baraccone, e poi..” Non terminò la frase. Due addetti alle pulizie entrarono con impeto. Una ragazza guidava un grosso panno scopa a forma di forbice con il quale asportò con precisione la polvere. La signora fu abile a scansarsi con destrezza, dato che l’inserviente parve non accorgersi della sua presenza. Eliminò con coscienza lo sporco accumulatosi sotto i tre letti. Poi entrò in scena il collega, il quale passò con cura lo straccio bagnato per tutto il pavimento. La signora stavolta non si fece cogliere impreparata e stette seduta, alzando i piedi al passaggio dello straccio. Senza proferire verbo, i due uscirono per recarsi nella camerata adiacente. La donna attese pazientemente che la superficie asciugasse, poi riposizionò i piedi per terra. Il marito, incurante del traffico, si era addormentato. “Finalmente una buona notizia” pensò. Tese l’orecchio per alcuni minuti e le rispose solo un inatteso silenzio. Si avventurò per qualche passo in corsia, il movimento sembrava essersi calmato. Soltanto le infermiere proseguivano senza sosta nelle loro affannate mansioni. All’interno delle stanze, i degenti avevano terminato di fare colazione; chi ne era impossibilitato, era stato aiutato da un visitatore, presente al suo fianco. Rientrò. Uno sguardo all’orologio: nove e trenta. Il consorte continuava nel suo sonno velato da un leggero russare. Il degente a fianco teneva invece gli occhi sempre fissi davanti a sé. La signora si avvicinò. La colazione ormai era solamente tiepida. Lei prese coraggio ed intinse il cucchiaio di plastica nella tazza, preparando il primo boccone. L’uomo corrugò impercettibilmente la fronte, e dopo pochi attimi di esitazione aprì la bocca il più possibile. La donna l’imboccò con delicatezza, stando ben attenta a non caricare troppo il cucchiaio. Le operazioni erano piuttosto lunghe, dato che l’anziano masticava molto lentamente, trascorreva anche un minuto tra una “portata” e l’altra. Ad un tratto avvertì rumore dietro a sé. Stava entrando il medico di turno, coadiuvato da una delle tre infermiere per la visita delle 10. Chiese gentilmente ma con fermezza alla signora di interrompere l’operazione e mettersi un momento da parte. Pochi minuti più tardi il dottore passò al marito della signora e questa poté riprendere. Quando il medico ebbe finito ed uscì, l’infermiera si trattenne un momento a ringraziare la donna. Disse che senza di lei, il vecchietto sarebbe stato alimentato solo verso le 11, al termine delle visite. La signora non riuscì a trattenersi dal chiedere: “Ma quest’uomo non ha figli, parenti, nipoti, chi si possa prendere cura di lui?” “E’ vedovo. Ha due figli. Abitano lontano, chi li ha visti?”. Sparì di corsa dietro al carrello e al dottore che attendeva impaziente. La signora e il marito restarono senza parole. Lui ora non le chiedeva più di lasciar in pace quella persona. Lei aveva ancora metà colazione da dare. Riprese di buona lena, ma alcuni minuti più tardi s’arrestò per raccogliere alcuni tovaglioli dal cassettino del marito, coi quali deterse delicatamente la bocca dell’anziano. Non mancava molto ormai, ed anche se le attese tra un boccone e l’altro erano lunghe, parevano non pesarle più. La fragile tranquillità di quei momenti fu interrotta dall’ingresso delle due altre indaffaratissime infermiere, che portavano un nuovo ospite su un lettino, appena trasferito dal pronto soccorso. Fu sistemato a fianco del marito della signora, ove era uno spazio vacante. Furono momenti caotici, al nuovo paziente fu applicata subito una flebo, ed il medico rientrò di corsa dal giro delle visite per impartire i primi ordini. Le infermiere lavorarono per alcuni minuti intorno all’uomo dopodiché si dispersero veloci per la corsia. Ancora una volta la donna riprese volonterosa a nutrire il vecchio. Aveva quasi finito. L’ultimo boccone, parve volerselo assaporare a lungo. Finalmente lei depose il cucchiaio nella tazza vuota. Pulì definitivamente la bocca e il viso dell’uomo e fu allora, che lui cambiò espressione. Un sibilo, più che una parola, eppure lei l’udì distintamente. “Grazie.” Poi, più nessun suono, ma il sorriso che aveva accompagnato quel sussurro permaneva. Lei faticava a staccarsi da quella persona. Si accorse di provare qualcosa che non aveva mai sentito prima. Un vivo senso d’amore si fece strada nell’anima, permeandola intensamente. Una dimensione di bontà infinita, che non riusciva a definire e le aveva causato un turbamento bellissimo, sconosciuto. Trascorse l’intera giornata in una specie di estasi ed ancora molto, molto tempo dopo non riusciva a spiegare cosa le fosse successo. Avrebbe tanto voluto rivivere quei momenti, quelle sensazioni ma si sarebbe rivelata un’esperienza irripetibile.
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14 NOVEMBRE 2018
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C'ERA UNA VOLTA IL QUARTETTO CETRA
sabato 17 Novembre alle ore 21
al Teatro Binario 7 di Monza |
Il mitico Quartetto Cetra ritorna a Monza per una sera grazie a The Apricot Tree, il trio vocale formato da Nicoletta Tiberini, Andrea Di Ceglie e Chiara Lucchini, che presenta i successi dei Cetra accostandoli ad alcuni brani del repertorio jazz da cui il Quartetto ha tratto ispirazione. Sul palco insieme ai cantanti, Nadio Marenco alla fisarmonica, Alessandro Sicardi al contrabbasso e Andrea Quattrini alla batteria.
Mescolando musica, aneddoti e un pizzico di umorismo, la band propone dunque un viaggio nel nostro recente passato con uno spettacolo adatto ad un pubblico di ogni età che riporta sul palcoscenico un repertorio prezioso, unico, originale e straordinariamente ancora moderno, per una imperdibile serata a tutto swing!
L’appuntamento è dunque per sabato 17 Novembre 2018 con lo spettacolo C’era una volta il Quartetto Cetra al Teatro Binario 7 di Monza con inizio alle ore 21.
INGRESSO 12 EURO / RIDOTTO 10 EURO
Teatro Binario 7, via Turati 8 Monza
Biglietteria: 039 2027002 Mail:
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11 NOVEMBRE 2018
Sergio camminava spedito sul bagnasciuga, gli auricolari ficcati saldamente nelle orecchie, con la ferma intenzione di smaltire i postumi dell'abbondante colazione. Un'attività che ripeteva due volte, in spiaggia, al mattino e al pomeriggio, e gli era stata tramandata dal padre. Proprio quell'anno Sergio compiva quarantacinque anni. Non s'era mai sposato e questo rappresentava un mistero. Il fisico ancora relativamente asciutto, la bella presenza, la parlantina sciolta, non gli avevano fruttato granchè al di là di brevi, innocui flirt senza seguito. Così, dopo la prematura morte della madre, già da molti anni Sergio trascorreva le settimane estive di vacanza al mare. Ma quell'anno, le cose parevano non seguire l'iter consolidato, ossia lunghe giornate sulla sabbia col genitore, a camminare e nuotare, a leggere, giocare a carte. In quattro giorni di soggiorno, solo in un'occasione, il padre era sceso in spiaggia col figlio. Ormai ultrasettantenne, l'uomo arrivava da un'annata difficile in città, alle spalle un ricovero e un paio di allarmi, per fortuna rientrati, al pronto soccorso. E anche durante quei primi giorni di ferie s'era sentito poco bene, tanto dal preferire la quiete dell'albergo alla vita di spiaggia. Era il terzo giorno che Sergio camminava di buona lena, solo col ritmo della musica e la voglia di rispettare la tabella di marcia che s'era imposto, Verso le sei e trenta, stanco, aveva deciso di riprendere la strada verso il proprio bagno, che non era breve. Aveva percorso tanta strada, eppure non era del tutto soddisfatto, si sentiva come se gli mancasse qualcosa dentro. Proprio come i due giorni precedenti. Mentre calcava insistentemente le ultime centinaia di metri, Sergio capì che gli mancava a fianco la figura del padre, che gli aveva istillato quella passione che ora lui perpetrava in solitudine. Cercò di non pensarci ma proprio in quel momento la canzone che stava ascoltando passava una frase che lo colpì nel profondo: .."For we lived so well so long..." (Abbiamo vissuto così bene per così a lungo...). Mentre stava per recuperare la propria postazione, alzò gli occhi e osservò immalinconito l'alone rosso vivo del sole che illuminava di verde acceso la cima della montagna, dietro la quale stava tramontando. E il vedere altri bagnanti che uscivano quietamente dall'acqua, appagati, tranquilli, sorridenti, gli innestava il doloroso senso della vita che passa.
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